Visto che ci stiamo prendendo gusto con questi articoli che rievocano il Motocross del passato, ecco un altro bel pezzo di Matteo Portinaro: questa volta si parla di gesti eroici. Buona lettura.
Sono passati appena una decina di giorni dal GP d’Inghilterra, svoltosi sul tracciato di Matterley Basin, e ancora non si sono completamente placate le polemiche per il contatto tra Herlings e Cairoli, avvenuto nelle ultime battute di Gara 1.
Tutto ciò ha tolto visibilità ad un gesto che potremmo definire eroico da parte di Jeremy Seewer: lo svizzero, nel corso della prima frazione, è stato colpito violentemente al volto da una pietra, che gli ha provocato la lacerazione della pelle con conseguente vistosa perdita di sangue. Una situazione che, analizzata a mente fredda, è stata vista come poco saggia, dato che il pilota avrebbe potuto anche perdere i sensi, mettendo così a repentaglio l’incolumità sua e quella altrui. D’altro canto rimane da fare un plauso al pilota Yamaha per aver concluso stoicamente la gara in dodicesima posizione, mostrando ancora una volta di quale pasta siano fatti i personaggi che caratterizzano questo sport.
Un fatto analogo a quello successo ad un altro Jeremy, nel 2014: il belga Van Horebeek, infatti, a Lommel fu protagonista di un gesto simile. Nonostante la rottura dell’arcata sopraccigliare, il pilota del team Yahaha Rinaldi riuscì nell’impresa di rimanere in pista, concludendo addirittura nella top 10. Al termine della prova commentò quel suo gesto con le seguenti parole: ”Siamo piloti, non calciatori”. Parole forti e un po’ polemiche, che rispecchiavano però quelle di una persona che aveva valicato il limite imposto dalla sofferenza.
Il motocross è uno sport fondato sul sacrificio, sulla capacità di affrontare le avversità sempre con la stessa forza e determinazione, come se le cicatrici del passato non avessero alcun peso. Sono tanti gli episodi che potremmo citare per testimoniare la forza di chi pratica questo sport con una passione che spesso non è spiegabile a parole. E allora abbiamo fatto l’ennesimo viaggio nella storia del cross, rivivendo alcuni tra i gesti più significativi e sofferti avvenuti in tanti anni di campionato del mondo.
La parola “sofferenza” significa: condizione tormentosa provocata dall’assiduità del dolore. Una situazione con la quale Hakan Carlqvist, due volte campione del mondo, ha convissuto per tutta la carriera, uscendone alla fine vincitore, forte di una tempra che superava anche la forza del suo possente fisico. Lo svedese rimane certamente uno dei piloti che più di ogni altro nella storia ha buttato il cuore oltre l’ostacolo, correndo in svariate occasioni con problemi fisici rilevanti, senza però mai risparmiarsi. “Carla”, se avesse ascoltato solo i consigli dei medici, non sarebbe mai diventato il pilota leggendario che tutti ricordano ancora oggi. Un grave infortunio alla gamba sinistra, patito nel corso del Gp del Belgio 1977, valevole per il mondiale 250, rischiò di mettere per sempre fine alla sua vita sportiva. Hakan trascorse molto tempo lontano dalle competizioni, ma ciò non gli impedì nel 1979 (appena due anni dopo il terribile incidente) di ottenere il Titolo nella quarto di litro, dominando il campionato e vincendo più del 50 % della manche in programma. Le stagioni a venire non furono meno problematiche per lui, che comunque non si perse mai d’animo, riuscendo nell’impresa di sconfiggere il forte team Honda HRC, capitanato dal belga Andrè Malherbe, cogliendo l’alloro mondiale della classe 500 nella stagione 1983. Sempre in quell’annata, fu sensazionale il gesto che compì nel corso del Gp di Francia: Carlqvist prese parte alla gara seppur avesse due costole rotte, concludendo secondo nella prima frazione. In quella di chiusura poi, nonostante dolori lancinanti, riuscì di nuovo a chiudere nelle posizioni di vertice, crollando a terra poco dopo aver tagliato il traguardo, vittima di un collasso. Un esempio che racchiude in sé tutta la sua forza d’animo, quella di un gigante dal cuore enorme.
Svariati rimangono anche i campionati del mondo decisi all’ultima prova, che hanno prodotto finali epici e drammatici al tempo stesso, segnando così pezzi di storia scalfiti tutt’ora nella memoria degli appassionati: rimarchiamo quindi innanzitutto l’ultimo Gp del Mondiale 1984 classe 500, svoltosi sul tracciato italiano di Esanatoglia, dove Georges Jobè corse nonostante i postumi di una rovinosa caduta rimediata durante le prove della domenica mattina. Il belga doveva cercare di ricucire il gap che lo separava in classifica dal connazionale della Honda HRC, Andrè Malherbe. 21 punti con sole due manche da disputare, per di più con ancora addosso i segni della botta rimediata solo poche ore prima, avrebbero piegato la tempra di molti, ma il pilota della Kawasaki dimostrò una forza indomabile. Due secondi posti in entrambe le manche che seppero di vittoria, per come erano maturate. Tutto ciò fu reso vano dalla regolarità di Malherbe, che con un quarto ed un quinto posto riuscì a gestire il vantaggio in classifica, ma il tentativo disperato di Georges di appropriarsi del Titolo della mezzo litro, per giunta nell’anno d’esordio in quella cilindrata, fu meritevole di numerosi complimenti, in primis da parte del neo campione del mondo, Andrè Malherbe.
Discorso analogo per quanto riguarda Alex Puzar, che nel Mondiale 250 del 1991 perse il campionato per soli 10 punti, a favore del rivale di sempre, l’americano d’Italia Trampas Parker, dimostrando comunque una forza di volontà spaventosa. La caduta avvenuta nel corso della prima manche del Gp di Svezia, penultima prova stagionale, gli provocò la rottura dei legamenti e del menisco del ginocchio destro. Il piemontese non si perse d’animo, decidendo di rischiare il tutto per tutto: si fece operare solo al menisco, di modo da poter essere della partita per l’ultimo round, in programma in Giappone. Imbottito di antidolorifici, il pilota di Ceva corse una gara tutta di cuore, cogliendo un quarto ed un terzo posto di manche che non gli permisero di bissare il successo iridato colto nella stagione precedente, ma che gli valsero il plauso generale, per aver cercato fino all’ultimo di realizzare un’impresa che avrebbe assunto dimensioni epiche.
Concludiamo questo breve excursus con un esito in questo caso positivo: dal 1991 facciamo un salto temporale di appena un anno. Ad essere protagonista è ancora il mondiale della quarto di litro, che nel Gp di Finlandia si apprestava a sancire il successo di Donny Schmit, pilota del team Yamaha Rinaldi, all’esordio nella cilindrata regina del motocross (data la caduta di appeal della 500, causata dal ritiro dei suoi prim’attori che negli anni ’80 la resero la più celebre e seguita). L’americano poteva fare forza su un cospicuo vantaggio in classifica sui compagni di squadra Moore e Puzar, ed ormai l’assegnazione del Titolo sembrava una pura formalità. Nelle prove accade però il fattaccio che rischiò di mettere a repentaglio tutto: una zona del tracciato non trovò il consenso dei piloti, che ne richiesero la modifica. Dopo lunghe discussioni, si provò quindi il nuovo tratto, che dopo poco vide però subito una vittima. Si trattò proprio del leader del campionato, che uscì dal tracciato su una gamba sola, a causa della botta patita durante la caduta. Calò il gelo sulla pista ed in breve tempo giunsero i soccorsi. Fortunatamente l’impatto fu meno pesante di quanto immaginato inizialmente e gli esami diedero esito negativo. Nulla era rotto o compromesso, ma la strada verso il campionato del mondo rimaneva più in salita del previsto per Donny. Lo yankee strinse i denti, correndo sulla difensiva per cercare di non sforzare troppo il ginocchio malconcio. Alla fine della seconda manche, Schmit potè finalmente levare le mani al cielo: il Mondiale era matematicamente suo, con una prova di anticipo. L’urlo liberatorio e l’abbraccio con il team manager Michele Rinaldi suggellarono un week end indimenticabile, iniziato tra lo spavento e l’apprensione e conclusosi nel migliore dei modi, a coronamento di una stagione che, a partire dalla prova italiana corsa al Ciglione della Malpensa, lo vide assoluto dominatore.
Sarebbero ancora tanti gli esempi da rimembrare per sottolineare quanta forza abbiano i campioni che praticano questo sport. La sofferenza usata come incitamento a non mollare, come forza per andare avanti, verso nuovi traguardi. E poco importa se alla fine il successo sia arrivato o meno, quel che conta è non mollare, mai.
Articolo by Matteo Portinaro
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